Thursday 16 July 2015

WHAT FOR? > contributi - Lettera di Bifo
















Lettera di Franco Berardi Bifo

(...) Sinceramente parlando, credo che dovremmo fermarci a riflettere. 
Intendimi bene, sono del tutto solidale con quello che farete (qualsiasi cosa facciate) il 26 27 28. E non credo che le lotte disperate frammentarie di questi mesi si possano fermare.
Il corpo fisico della società, colpito dall'austerità, dalla miseria, dagli sgomberi, dalla violenza poliziesca, reagisce rabbiosamente. Disperatamente, perché non c'è speranza nelle lotte di questi anni. Non c'è speranza, non c'è strategia non c'è solidarietà.
Gli sfrattati reagiscono agli sfratti, gli insegnanti alla legge di privatizzazione di Renzi, gli operai licenziati di una fabbrica reagiscono al licenziamento ma quelli della fabbrica accanto stanno zitti, in attesa che il licenziamento arrivi anche da loro. E alla fine tutti perdono.

E' l'effetto della precarietà generalizzata: ciascuno è solo, e pensa alla sua condizione. Ciascuno compete con i suoi colleghi. Non esistono compagni, solo concorrenti.
Il mio non è un discorso moralistico, meno che mai un discorso nostalgico. Riconosco che la composizione sociale è mutata in tal modo che il modello della solidarietà, della lotta unitaria, della strategia comune non si può realizzare. E allora ogni volta che siamo colpiti siamo soli, e l'intensità della nostra risposta è disperata.

Negli ultimi mesi del 2014 ho fatto un viaggio in California e in Messico, e ho incontrato gruppi di studenti, di poeti, di militanti - con i quali ho progettato un'azione di comunicazione che si chiamava urgeurge.
Il progetto si è rapidamente sgretolato, perché non esiste più Internet esiste solo Facebook, e anche perché dei cinquanta giovani compagni coi quali avevo parlato durante il mio viaggio solo due o tre hanno continuato a collaborare al progetto.
Io so bene che il problema di tutti è quello di sopravvivere, per cui l'entusiasmo per un progetto svanisce presto quando ci si trova a fare i conti con l'isolamento della vita quotidiana.

E allora? Allora non credo che ci sarà modo di fermare l'offensiva nazi-liberista per la semplice ragione che quell'offensiva è già passata, tutta. Ora siamo solo agli ultimi ritocchi, e poi la società continuerà a impoverirsi, e la gente a disperarsi nell'isolamento, e i ragazzi a impiccarsi.
Questo è. Non possiamo fare altro che analizzare, capire, descrivere.
E poi?
Cosa si fa quando non c'è più niente da fare, quando la composizione sociale e il ricatto economico e la depressione psichica rendono impossibile ogni processo di soggettivazione cosciente e collettiva?
Questa è la domanda da porsi.
La mia risposta è che solo la guerra ormai può creare le condizioni di un processo nuovo. La guerra, il trauma.
Da molto tempo sono convinto del fatto che la Jugoslavia degli anni '90 è il modello del continente europeo alla fine di questo decennio. La guerra ai migranti, la guerra tra diversi paesi sulla questione migrante, la guerra ucraina, presto la guerra greca, e la guerra ungherese, e la guerra turca... tutto questo si va saldando in un fronte generale di guerra civile europea che dobbiamo saper leggere dietro le apparenze di una vita quotidiana ancora tranquilla.
La questione è la stessa questione che Lenin affrontò dopo il 1914: trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Ma i termini del problema sono tutti mutati: diversi sono gli armamenti, diversi gli attori, diversi i fronti, diversa la posta.
Dobbiamo comunque abbandonare le illusioni, abbandonare l'illusione di una ripresa economica, abbandonare l'illusione che esista una sinistra, abbandonare l'illusione che sia possibile mantenere quel poco di pace che ci sembra ancora di avere.
Dobbiamo prepararci alla guerra, perché non vi è più altro orizzonte.

Ma non basta. Occorre anche sapere che il territorio su cui il processo di autonomia può riaprirsi non sarà simmetrico a quello della guerra. Non si tratta di procurarsi armi, di imparare a sparare. A chi, poi?
Il processo di liberazione si svolgerà interamente sul terreno della tecnologia, del lavoro cognitivo e della sovversione del paradigma lavorista. La liberazione dal lavoro salariato, la riprogrammazione della macchina intellettiva globale, la redistribuzione globale della ricchezza.
Questo è il terreno su cui si dovranno convocare le forze dell'intelligenza collettiva. Ma solo a partire della guerra si riaprono le condizioni perché un simile processo possa diventare efficace.

Un abbraccio a Franca di Bertinoro, e un saluto a tutti i compagni che saranno a Rimini per dire ai collaborazionisti democratici che il loro cinismo non basterà a salvarli, perché l'apocalisse è più potente delle banche. E abbiamo la memoria molto lunga.

No comments:

Post a Comment